È singolare l’avventura della data governance in Italia.
Da sempre considerata nel DMBoK (un documento di riferimento per il data management a livello planetario) la pietra angolare di tutte le knowledge area coinvolte nella gestione dei dati, ha cominciato ad essere considerata nel nostro paese solo una decina di anni fa. Si è insinuata quasi di soppiatto sotto mentite spoglie, quelle della qualità dei dati, in uno specifico settore, il finance, per rispondere ad una serie di normative, Basilea e Solvency in testa.
Fino ad allora i principi di buon governo dei dati erano considerati magari interessanti, al massimo uno spunto per qualche iniziativa concreta, spesso interrotta in favore di altre priorità. Ma l’introduzione di questi obblighi regolamentari ha di certo dato un stimolo agli operatori di questo settore in termini di consapevolezza circa i vantaggi derivanti da una gestione ordinata dei dati e di diffusione di pratiche strutturate per il loro governo.
Introdurre in azienda nuove discipline nel trattamento delle informazioni comporta l’impiego di risorse di cui non è immediato vedere i ritorni. È quindi normale che la spinta normativa sia stata una delle leve più efficaci per avviare programmi di data quality.
Ma la data quality è un vortice:
- quando entra in un’organizzazione trascina naturalmente dietro di sé altre prospettive di data management e soprattutto di data governance.
- non è possibile controllare i dati in modo efficace senza conoscerne alcune caratteristiche fondamentali; per cominciare la ownership, la semantica, il lineage.
Un passaggio fondamentale è stato quello di evadere molto rapidamente dal solo piano dei dati fisici, gestiti dai sistemi informatici. Le aziende hanno cominciato a “scaricare a terra” il principio secondo cui il patrimonio informativo è qualcosa che rappresenta un valore concreto per il business. La conseguenza pratica è stata identificare le informazioni rilevanti per il business, chiamandole con il nome con cui le organizzazioni sono abituate a chiamarle, stabilirne una definizione valida per tutta l’azienda, il ruolo che giocano nei processi aziendali. Ma soprattutto determinarne il legame con i dati fisici che le rappresentano nei sistemi informatici. Solo conoscendo questa connessione tra piano fisico e di business, e gestendo tutte queste informazioni attraverso un sistema di metadati, è possibile costruire impianti di controllo automatici in grado di determinare in modo efficiente e sostenibile il livello qualitativo delle informazioni critiche per un processo aziendale.
Sono i primi significativi passi di un percorso virtuoso verso una data governance matura; percorso che molte banche e assicurazioni stanno ora perseguendo con maggior determinazione, non solo spinti da obblighi di compliance, ma nella convinzione che esso possa contribuire a generare un valore concreto e percepibile per il governo d’impresa.
È solo l’inizio: la naturale osmosi con altri settori di mercato, e il succedersi di normative sempre risk based, sempre data intensive (vedi GDPR) stanno rapidamente alimentando un processo virale: l’interesse verso queste discipline cresce, proliferano le esperienze concrete, di valore anche al di fuori del finance, anche e soprattutto al servizio della digital trasformation.
Ma, come si dice, questa è un’altra storia.